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"La responsabilità di un datore di lavoro per un infortunio"
fonte www.puntosicuro.it / Sentenze
25/01/2016 - Il nesso fra la
condotta del datore di lavoro e l’evento lesivo, la prevedibilità
che l’evento potesse accadere nonché l’evitabilità nel senso che lo stesso
non si sarebbe verificato se il datore di lavoro avesse avuto un comportamento
più diligente e di maggiore impegno sono elementi questi che devono sussistere tutti
perché sia individuata la responsabilità di un datore di lavoro per un
infortunio occorso ad un proprio lavoratore dipendente. E’ quanto emerge dalla
lettura di questa sentenza della Corte di Cassazione penale. La titolarità di
una posizione di garanzia, ha infatti precisato la Suprema Corte, non comporta,
in presenza del verificarsi di un infortunio, un automatico addebito di
responsabilità colposa a carico del garante imponendo il principio di
colpevolezza la verifica in concreto sia della sussistenza della violazione da
parte del garante stesso di una regola cautelare (generica o specifica) e della
sua connessione con l’evento dannoso, sia della prevedibilità che dell’evitabilità
dell'evento dannoso se fossero state adottate delle regole cautelari idonee a
tal fine (cosiddetto comportamento alternativo lecito) non potendo essere
soggettivamente ascritto per colpa un evento che, con valutazione ex ante, non
avrebbe potuto comunque essere evitato.
Il fatto e l’iter giudiziario
La Corte di Appello ha confermata la
sentenza con cui il Tribunale ha condannato alla pena di mesi uno di reclusione
per il reato di cui all'art. 40 cpv, 590 comma 1, 2 e 3 c.p. un lavoratore
autonomo artigiano, incaricato da un committente di effettuare e realizzare
lavori di smontaggio, il titolare di un’impresa individuale, incaricata di
effettuare e realizzare lavori di allestimento e datore di lavoro
della persona offesa nonché l’amministratore della società committente dei
lavori di smontaggio e allestimento di uno stand all'interno di un polo
fieristico per avere cagionato a un lavoratore dipendente dell’impresa, con
colpa e per violazione degli obblighi di protezione che ineriscono alle
rispettive posizioni di garanzia, delle lesioni personali consistite in
"frattura traumatica di C 1 in sede anteriore sinistra coinvolgente il condilo
anteriore articolare di questo lato ed un dubbio focolaio contusivo in sede
temporale destra” da cui derivava una incapacità di attendere alle ordinarie
occupazioni per un periodo complessivo di 156 giorni.
La Corte di Appello ha confermata,
altresì, la sentenza di condanna, con colpa consistita in imprudenza,
negligenza e imperizia e nella violazione di disposizioni specifiche in materia
di sicurezza ed igiene sul lavoro, il datore di lavoro dell’infortunato per non
aver provveduto a fornire dettagliate informazioni sui rischi specifici
esistenti nell'ambiente di lavoro e per non aver coordinato gli interventi di
prevenzione e di protezione dei rischi ai quali erano esposti i lavoratori
anche al fine di eliminare i rischi dovuti alle interferenze reciproche tra i
lavori delle diverse imprese coinvolte nell'esecuzione dell’opera complessiva
(in violazione dell'art. 7 comma lett. h e comma 2 del D. Lgs n. 626/1994)
oltre che per non avere sorvegliato sull'utilizzo dei dispositivi di protezione
individuale del proprio lavoratore infortunato che non indossava il necessario
D.P.I. (caschetto protettivo) (in violazione dell'art. 4 lett. f del medesimo decreto
legislativo).
Il
ricorso in Cassazione e le motivazioni
Avverso il provvedimento della Corte
di Appello il datore di lavoro dell’infortunato ha proposto ricorso per
Cassazione sostenendo che non vi fosse un nesso causale tra la sua condotta da
lui ritenuta diligente e l'infortunio del dipendente. Secondo lo stesso,
infatti, l’artigiano, in occasione dell’infortunio, aveva deciso di compiere le
operazioni di smontaggio di un pannello senza rispettare la procedura che gli
era stata appositamente illustrata e il lavoratore dipendente da parte sua,
chiamato dall’artigiano per aiutarlo, era transitato impropriamente sotto il
pannello in fase di smontaggio venendo colpito dallo stesso. Sia il lavoratore
che l’artigiano, secondo l’imputato, erano stati compiutamente informati delle
procedure operative, avevano seguito un corso di formazione specifico
organizzato dall'azienda e avevano ricevuto un manuale di istruzioni e, forse perché
eccessivamente sicuri delle proprie capacità maturate in oltre tre anni di
svolgimento della medesima attività lavorativa, avevano ritenuto di poter
compiere diversamente la movimentazione
del pannello per cui l’infortunio era da ascrivere esclusivamente alla responsabilità dell’artigiano
e alla condotta
imprudente e imprevedibile dell’infortunato sufficienti a costituire
autonomo nesso causale con l'evento dannoso.
L’imputato ha messo, altresì, in
evidenza di essersi premurato, in qualità di datore di lavoro, che il suo dipendente seguisse i corsi di
formazione, organizzati dal committente, relativi alle modalità di smontaggio dei
pannelli e di avergli fornito tutti i presidi di protezione individuale previsti
dalla legge per cui l’infortunio non poteva certamente essere ritenuto
conseguenza di una sua condotta negligente ma unicamente effetto
dell'imprudenza del lavoratore autonomo in quanto egli, in assoluto contrasto
con la procedura prevista, aveva deciso di rimuovere autonomamente un pannello
di 30 kg ad un'altezza di circa due metri, per di più dopo il termine
dell'orario lavorativo, quando gli altri operai stavano già radunando gli
attrezzi per poi recarsi a casa.
Anche se avesse messo in atto tutte
le cautele concepibili e quand'anche fosse stato presente in cantiere, ha
sostenuto ancora il ricorrente, non avrebbe potuto prevedere ed evitare un
comportamento tanto abnorme nella sua imprudenza. All'avventatezza del lavoratore
autonomo si sarebbe poi affiancata l'assoluta
imprudenza del suo dipendente che, in contrasto con le regole di accortezza
più comuni e basilari, ha deciso di transitare, sotto l'area dove stava
operando il lavoratore autonomo per giunta senza il presidio protettivo. I
comportamenti dei due lavoratori, in conclusione secondo il ricorrente, sarebbero
stati sufficienti, di per sé, a costituire autonomo nesso causale e ad
interrompere ogni correlazione tra la sua condotta e l'evento dannoso. Alla
luce di quanto sopra detto il ricorrente ha chiesto alla Corte di Cassazione l’annullamento
della sentenza della Corte di Appello.
Le
decisioni della Corte di Cassazione
La Corte di Cassazione non ha
ritenuti infondati i motivi del ricorso. Non si è spiegato la suprema Corte
quali fossero stati i motivi per cui i comportamenti dei due lavoratori non
fossero stati ritenuti sufficienti, di per sé, a costituire autonomo nesso
causale e ad interrompere ogni correlazione tra la condotta del datore di
lavoro e l'evento dannoso. La Sez. IV ha affermato in merito che, come sostenuto
dal ricorrente, “
la titolarità di una
posizione di garanzia non comporta, in presenza del verificarsi dell'evento, un
automatico addebito di responsabilità colposa a carico del garante, imponendo
il principio di colpevolezza la verifica in concreto sia della sussistenza
della violazione - da parte del garante - di una regola cautelare (generica o
specifica), sia della prevedibilità ed evitabilità dell'evento dannoso che la
regola cautelare violata mirava a prevenire (cosiddetta concretizzazione del
rischio), sia della sussistenza del nesso causale tra la condotta ascrivibile
al garante e l'evento dannoso (sez. 4, n. 43966 del 06/11/2009, rv. 245526); e
tanto, sul presupposto che, in tema di reati colposi, l'addebito soggettivo
dell'evento richiede non soltanto che l'evento dannoso sia prevedibile, ma
altresì che lo stesso sia evitabile dall'agente con l'adozione delle regole
cautelari idonee a tal fine (cosiddetto comportamento alternativo lecito), non
potendo essere soggettivamente ascritto per colpa un evento che, con
valutazione ex ante, non avrebbe potuto comunque essere evitato”.
Ed è proprio sulla base delle considerazioni
sopra esposte che la Corte di Cassazione ha ritenuto che i motivi del riscorso
non fossero manifestamente infondati e,
preso atto che il termine massimo di prescrizione è risultato essere ormai decorso,
ha annullata senza rinvio la sentenza impugnata per essersi il reato ascritto
all’imputato estinto per intervenuta prescrizione.
Gerardo
Porreca
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