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"Amianto, prima vittoria dei Brockovich di Casale"

fonte Il corriere della sera, M. Imarisio / Sicurezza sul lavoro

23/07/2009 - TORINO - A Nicola Pondrano è venuto in mente il vecchio Marenco. Al suo primo giorno di fabbrica gli venne incontro e lo squadrò dalla testa ai piedi. «Che vieni a fare qua dentro, che sei così giovane? Anche tu sei venuto a morire?». Bruno Pesce non ha avuto il tempo di pensare a niente. La prima dei tanti che lo hanno circondato per dirgli grazie è stata Teresa, moglie di Gianfranco Alzano, che morì otto anni fa, mancava poco a Natale. Sei mesi, gli avevano detto i medici, lui durò un giorno in più. Nell'aula bunker del tribunale c'è una cappa di sudore, caldo e silenzio. «Pertanto, respinte le eccezioni sollevate dalle difese degli imputati, si dispone il rinvio a giudizio ... ». Il 10 dicembre 2009 ci sarà un processo. Gli imputati si chiamano Stephan Schmidheinye Jean Louis De Cartier de Marchienne. Il primo è un imprenditore svizzero, uno degli uomini più ricchi del mondo. Il secondo è un nobile belga di 88 anni. Sono accusati di disastro doloso e rimozione volontaria di cautele contro gli infortuni. Erano proprietari dell'Eternit, multinazionale specializzata nella produzione e lavorazione dell'amianto. Nelle quattro sedi italiane, Casale Monferrato, Rubiera di Reggio Emilia, Cavagnolo (Torino), Bagnoli (Napoli), a causa del contatto con questo prodotto, sono morte più di 2.300 persone, ex dipendenti e «civili», 1.378 solo a Casale Monferrato, dove c'era lo stabilimento più grande. E la lista continua ad allungarsi, ogni anno 55 nuovi nomi. «Un reato - ha detto il giudice giustificando la mancata concessione della prescrizione - che non è ancora stato del tutto consumato e risulta ancora in atto». I fatti, in sintesi, sono questi. Il dibattimento avrà un numero impressionante di parti lese, 5.700 tra familiari delle vittime e malati, in Europa non era mai successo prima. Il procuratore Raffaele Guariniello ha quindi ragione quando parla di «pagina storica». Gli avvocati della difesa non hanno torto quando sostengono che il processo «non deve essere caricato di significati extragiuridici». Le panche e la piccola tribuna dell'aula bunker erano stipate di gente arrivata da Casale Monferrato, la capitale di questa strage a bassa intensità che ancora continua. Comunque fosse andata, si chiudeva un cerchio. La fine di una storia tragica che ne contiene un'altra, la ricerca ostinata di una verità che molti non volevano vedere. Nicola Pondrano era poco più che un ragazzo quando entrò in fabbrica. Orfano di madre, cresciuto a Vercelli da uno zio che era stato comandante partigiano. Ogni settimana vedeva che i nomi nei necrologi affissi alla bacheca del consiglio di fabbrica cambiavano. C'era qualcosa di brutto nell'aria dello stabilimento al quartiere Ronzone. Qualcosa che uccideva. Bruno Pesce invece non ha mai lavorato all'Eternit. Quand'era garzone di bottega nelle gioiellerie di Valenza usava le lastre d'amianto come base d'appoggio per modellare gli oggetti d'oro. Aveva mollato tutto per entrare in Cgil. Nel 1979 il sindacato lo spedisce a Casale. Pondrano è un esuberante, anche oggi la sua abbronzatura da vacanza e il completo in lino trasmettono un'idea di vitalità. Pesce è un uomo mite, la cui gentilezza nasconde una ostinazione feroce. Indossa camicie a mezza manica, parla con voce piana, ascolta jazz per astrarsi da una vita dedicata a questa battaglia. Pondrano e Pesce. Difficile pensare a due tipi più diversi tra loro, difficile pensarli nel ruolo di Erin Brockovich delle colline. Eppure è andata così. Dal loro incontro nascono le prime indagini ambientali minimamente attendibili. Nel 1981 passano una notte intera al telefono, contattando uno ad uno i 120 dipendenti candidati dall'Eternit a dimissioni ben remunerate, con una sola clausola, rinunciare all'indennità prevista per chi ha lavorato l'amianto. Pondrano e Pesce sono i primi ad accorgersi che la morte del maestro elementare Bertolotti non è una fatalità, ma la rivelazione di una realtà atroce, la fabbrica uccide anche chi non ci ha mai lavorato. Portano la protesta a Roma, sotto le finestre dell'lnail. Lanciano una campagna d'informazione nella loro città, pagandola di tasca propria. Fondano il comitato delle vittime. C'è una vecchia foto in bianco e nero che li ritrae in un'aula di tribunale insieme ad altri cinque uomini. Sono intorno all'operaio Giovanni Demicheli, che nella prima causa per il risarcimento del danno si presentò a testimoniare steso su una barella. Morì cinque giorni dopo. Anche gli altri cinque non ci sono più, portati via da un male velenoso capace di nascondersi per oltre trent'anni. «Chi non ha mai avuto un suo caro ammalato di mesotelioma non può capire». Anche Romana Blasotti Pavesi ha fatto una carezza ai suoi due ragazzi, così li ha chiamati. La donna che per l'amianto ha perso un marito, una sorella, una figlia. In coda con tutti gli altri. C'era Assunta, figlia del consigliere regionale Paolo Ferraris, morto nel 1996 a 49 anni. C'erano i figli dei vecchi operai, i parenti del bancario che faceva jogging intorno all'Eternit. «Grazie». Pondrano e Pesce avevano gli occhi lucidi. Si sono anche abbracciati. La prima volta, in trent'anni.

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