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"Mobbing a lungo termine "

fonte Italia Oggi, M. Paola Cogotti / Sicurezza sul lavoro

06/11/2009 - La condotta mobbizzante rileva solo se la persecuzione è sistematica e duratura. Questo è quanto affermato dalla recente sentenza della Cassazione del 17 settembre 2009 n.20046. È correttamente motivata, dunque, la sentenza d'appello che ha escluso la configurabilità del «mobbing» in una vicenda durata meno di tre mesi, e non per i sei mesi individuati dalla prassi giudiziaria. Nell'ambito lavorativo, secondo il condiviso orientamento della giurisprudenza prevalente, la parola mobbing ha assunto il significato di pratica persecutoria o, più in generale, di violenza psicologica messa in atto dal datore di lavoro o dai colleghi nei confronti di un lavoratore per costringerlo alle dimissioni o comunque ad uscire dall'ambito lavorativo. In particolare il mobbing ricorre quando sia accertata la reiterazione nel tempo di comportamenti di ostracismo e di persecuzione nei confronti del lavoratore-mobizzato, vittima designata da parte o dei colleghi attuando così il cosiddetto «mobbing» orizzontale, o dei superiori gerarchici definito come «bossing» verticale, senza che i titolari del rapporto di lavoro intervengano in alcun modo per interrompere detti comportamenti, con ciò assumendosi la responsabilità delle loro conseguenze ai sensi degli artt. 2049 e 2087 del codice civile. Il caso esaminato è relativo ad una lavoratrice la quale ha affermato che per quasi un trimestre era stato attuato nei suoi confronti il cosiddetto mobbing. Dapprima attraverso una inesistente contestazione disciplinare di assenza dal lavoro, poi mediante la sua totale destituzione dalle funzioni manageriali svolte, passando poi attraverso il demansionamento attuato con un distacco aziendale per l'espletamento solo di mansioni già svolte in passato ed infine con il licenziamento. La lavoratrice decide quindi di impugnare davanti al giudice del lavoro tutta la vicenda, il quale ritiene tuttavia che, poiché possa integrarsi la condotta mobbizzante, occorre che la persecuzione debba identificarsi come sistematica e duratura. Infatti nel caso di specie la condotta mobizzante era stata caratterizzata dalla brevità del periodo «essendosi eventualmente protratti per meno di un trimestre (e non per i sei mesi individuati dalla prassi giudiziaria) gli episodi vessatori e persecutori asseritamente operati dal preposto». La lavoratrice decide comunque di impugnare nel merito la sentenza. Giustamente sembra che, se il mobbing di solito richiede una reiterazione in un tempo congruo di comportamenti complessivamente vessatori, non si può escludere a priori che l'effetto lesivo si verifichi anche in ipotesi di fatti episodici o di breve durata, ma comunque particolarmente intensi. Oppure che si tratti di fatti pur posti in essere in un ambito temporale limitato, ma con effetti lesivi comunque duraturi, o di illecito datoriale progressivo, che accresca nel tempo la sua carica lesiva, specie se i fatti lesivi cessano solo in ragione dell'ultimo di essi, costituito dalla scelta datoriale di licenziare illegittimamente il dipendente sgradito. Il ricorso in Cassazione presentato dalla lavoratrice viene però respinto, in considerazione dei limiti del sindacato del giudice di legittimità sulla valutazione delle prove compiuta dalla sentenza di merito. Infatti la Suprema corte precisa che, riprendendo principi ormai consolidati, senza addentrarsi invece sulla valutazione della configurabilità di una nozione giuridica di mobbing di breve durata e della resistenza delle considerazioni di merito in relazione a una eventualmente diversa nozione di illecito datoriale, la deduzione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata con ricorso per cassazione attribuisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito della intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, ma la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito. A questo spetta, dunque in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l'attendibilità e di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, dando, così, liberamente prevalenza all'uno o all'altro dei mezzi di prova acquisiti.Si aggiunge dunque un tassello in più nella costruzione di un indice sistematico da seguire per le cause di mobbing e per valutare un rischio «stress» da lavoro- correlato che necessariamente dovrà essere inserito nel Documento di valutazione del rischio, dai datori di lavoro, a partire dal 1° agosto 2010.

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