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"Lavoro, donne da tutelare"

fonte Italia Oggi / Responsabilità sociale

12/10/2010 - Il lavoro non nobilita le donne. Verrebbe da cambiare scherzosamente il detto popolare, ma c'è poco da stare allegri. Le donne italiane si dividono tra casa, supermercati e lavoro. Una realtà complessa. Dall'attività lavorativa alla famiglia, dai rapporti interpersonali agli spostamenti: le italiane di oggi vivono una vita piena, spesso lavorando, portando avanti le faccende di casa e occupandosi dei figli. Un dato fotografa la situazione: rispetto agli altri paesi europei l'Italia ha una percentuale di partecipazione delle donne al mercato del lavoro decisamente bassa, il 46,1% di occupazione, inferiore di circa 12 punti percentuali rispetto a quello medio della Ue 27 secondo la ricerca Istat «Noi Italia. Cento statistiche per capire il paese in cui viviamo» edizione 2010. Quando si parla di integrazione della donna nell'impresa si dovrebbe tenere conto dei molteplici ruoli che ricopre nei diversi ambiti di vita. Le italiane impegnate in queste attività tendono a tessere una (costosa) rete privata di supporti e di aiuti, ma non è certo questo il sistema adatto, né tantomeno una soluzione a lungo termine. Servono modelli che siano organizzati e strutturati sul piano sociale, politico ed economico. I sistemi a tutela dell'occupazione femminile non possono essere attivati solo dalla stessa lavoratrice o dall'impresa, ma è necessaria una coordinata politica di welfare. Serve innovazione e un'attiva, sempre maggiore partecipazione delle Istituzioni pubbliche. Occorre un sistema politici, che si prenda la responsabilità di effettuare un cambiamento radicale, strutturale. Anche il ministero del lavoro e quello delle nari onnortunità cominciano a muoversi in questa direzione. E stato presentato il programma «Italia 2020» sull'inclusione della donna nel mercato del lavoro. Si tratta di un piano strategico di azione per la conciliazione dei tempi di lavoro con i tempi dedicati alla cura della famiglia e per la promozione delle pari opportunità nell'accesso al lavoro. Questo significa che devono essere garantite le stesse condizioni per tutti, sia nel momento dell'accesso al lavoro sia nel mantenimento. E da tempo che il Oliai osserva queste problematiche da diverse angolazioni. Occorre prima di tutto postulare che un fenomeno del genere non si può risolvere se non con una visione d'insieme. Se da un lato le esigenze delle donne incalzano, dall'altro 1 e aziende, soprattutto in periodi di crisi, devono contenere i costi e garantire la continuità della produttività. Ed è nel momento della maternità che si avverte la fase critica per entrambi. La questione si fa ancora più complicata quando si parla di piccole e medie imprese, dove l'equilibrio economico è assai più labile. Molte donne lasciano il lavoro e per quelle che decidono di rimanere la carriera si fa più difficile; la condizione migliora con la crescita dei figli e le donne potrebbero rientrare a regime ma spesso è tardi, le aziende le hanno già rimpiazzate. È una necessità, ma inserire nuovamente la donna può essere assai complicato per l'impresa. Eppure sia l'azienda che la neo mamma hanno delle necessità specifiche. Come fare per conciliare duo bisogni così diversi? Un primo stimolo al cambiamento, secondo il Cnai, potrebbe essere una nuova «Legge Quadro» che vada a disciplinare in ugual misura i doveri e i diritti dei lavoratori e delle lavoratrici. Si supererebbero le attuali discriminazioni tra impiego pubblico e impiego privato, garantendo a tutti gli stessi benefici, a cominciare per esempio dall'orario di lavoro, per il quale a parità di ore lavorate il pubblico paga meglio. Le donne che occupano un posto pubblico hanno alcuni «privilegi» rispetto a quelle impiegate nel privato. Solitamente possono permettersi di assentarsi più a lungo e soprattutto godono della certezza del «posto fisso». È una differenza notevole per due donne che, a parità di capacità, lavorano nel settore pubblico o privato. La seconda vive in una dimensione di incertezza continua, e avrebbe bisogno di tutele strutturali. Quindi opportuno salvaguardare anche quelle donne che non hanno la fortuna di lavorare per gli uffici pubblici per eliminare una discriminazione a monte nel mercato del lavoro. Un altro impulso importante deve partire dall'Inps. E un Istituto potenzialmente ricco di risorse economiche e professionali, se solo venissero gestite con coscienza, competenza e lungimiranza. In una condizione di gestione competitiva potrebbe contribuire a favorire l'inserimento del lavoro femminile. Per cominciare potrebbe organizzare direttamente tutti i servizi per la maternità e i permessi parentali, favorendo il potenziamento delle attività di coordinamento e di controllo. La gestione sarebbe così in mano a un organo centrale pubblico, con cui le aziende e le altre istituzioni si potrebbero facilmente relazionare. Anticipare il costo della maternità o dei permessi non è l'unico adempimento a carico dell'azien *** da. Quando la lavoratrice donna si allontana dal posto di lavoro, si pone il problema della sostituzione. Non basta avere un piccolo beneficio contributivo che permetta di effettuare versamenti minori all'Inps sul lavoratore in sostituzione. Entra in gioco il fattore formazione di un dipendente a cui trasferire le nuove conoscenze e che va inserito in un processo lavorativo. Si tende spesso a dimenticare i costi di cui un'azienda si fa carico per trasferire il «know how» a un dipendente. L'impresa dovrebbe essere agevolata in modo deciso per poter da una parte mantenere inalterato l'inalienabile diritto alla maternità della dipendente, dall'altro per poter investire nuovamente (o comunque temporaneamente) su un nuovo lavoratore da formare. Non bisogna inoltre dimenticare che la natalità di un sistema paese non è un problema personale femminile o della coppia, è un valore sociale. In un contesto demografico soggetto a radicali mutamenti, la bassa natalità costituisce un potente freno alla produttività e alla crescita. Non si tratta solo di tutelare un (basilare) diritto. Si vuole evitare di condannare a pesanti costi sociali le future generazioni. Se solo il tasso di natalità del nostro paese, nell'arco dei prossimi dieci anni, ritornasse nella media europea, la struttura della popolazione ridiventerebbe più larga, con effetti positivi crescenti sul mercato del lavoro come sul sistema dell' assistenza e della previdenza. Sarebbe -una soluzione a medio-lungo termine capace di districare un nodo che al momento appare insolubile. I fattori che influiscono sulla rinuncia al figlio sono molteplici. Tra questi, indubbiamente, una fiscalità che non premia la famiglia, la difficoltà di accesso a un lavoro regolare e di qualità per le donne. Servirebbe la diffusione del lavoro a tempo parziale e dei contratti di inserimento al lavoro. Se riuscissimo a calcolare in termini economici quanto un'azienda investe sulla formazione del lavoratore, probabilmente risulterebbe palese che l'aggravio maggiore sta proprio nel riuscire a rimpiazzare la figura mancante. La velocità dei processi lavorativi chiede inoltre che questa sostituzione avvenga in tempi stretti, perché nel frattempo il «gap. che si è creato va recuperato. C'è poi da prendere in considerazione che nel periodo di maternità la donna perde l'aggiornamento sulla propria professione. Quindi un nuovo inserimento sul mercato del lavoro dovrebbe tenere conto della formazione sulla donna che rientra nuovamente in azienda. Le si dovrebbe insomma garantire di non essere in una posizione svantaggiata rispetto ai colleghi che nel frattempo, durante la sua assenza, hanno acquisito nuove competenze. All'uguaglianza formale garantita alle donne dalla legge non corrisponde tuttavia quella della realtà quotidiana. Non va inoltre dimenticato che ancora oggi si registrano discriminazioni, più o meno palesi, che incidono non solo rispetto all'accesso al lavoro, ma anche sul trattamento retributivo, sulla qualità della occupazione, sui percorsi di carriera e crescita professionale e persino sulle opportunità di partecipazione a percorsi di formazione. Le donne continuano a guadagnare meno degli uomini per ogni ora lavorata e a essere sottorappresentate nelle posizioni che comportano responsabilità decisionali. Questo non fa che aggravare il lavoro delle italiane: da una parte una vita privata più impegnativa di quella maschile, dall'altra condizioni di lavoro peggiori. Se parliamo di aziende di grandi dimensioni forse il problema della sostituzione delle lavoratrici in maternità non si pone, ma se parliamo di piccole e medie imprese, di cui il nostro territorio è composto per la maggior parte, allora la questione è rilevante. E bisogna trovare una soluzione a lungo termine.

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