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"Responsabilità del RSPP per la morte di un lavoratore"

fonte Nicola Pignatelli, avvocato in Barletta / Sicurezza sul lavoro

09/03/2014 -

A seguito del decesso di un dipendente di una società (il quale, mentre conduceva in retromarcia un trattore agricolo utilizzato per la movimentazione di vagoni ferroviari, finiva in una “fossa di ispezione” contigua al capannone e, sbalzato fuori dall’abitacolo, rimaneva poi schiacciato dalle ruote del trattore stesso), veniva chiamato a rispondere dell’omicidio colposo aggravato dalla violazione della normativa antinfortunistica, il responsabile del servizio di prevenzione e protezione (R.S.P.P.) della società datrice di lavoro.

 

Tanto in I che in II grado, il R.S.P.P. era stato dichiarato colpevole per “non aver valutato adeguatamente i rischi connessi alle mansioni che gli operai dovevano svolgere durante le operazioni di movimentazione della carrozze, rischi derivanti in particolare dalla presenza delle fosse di lavorazione non protette al fine di evitare la caduta accidentale di uomini e di mezzi”.

 

Nell’impugnare la condanna inflittagli dalla Corte di Appello (confermativa di quella inizialmente pronunciata dal Tribunale), il R.S.P.P. poneva all’attenzione della Corte di Cassazione alcune circostanze, quali:

 

-- la “fossa di ispezione” era posta in una zona in cui non doveva svolgersi alcuna attività lavorativa e comunque era “protetta” da paletti di recinzione e catenelle di sicurezza;

-- il documento di valutazione dei rischi prendeva in considerazione esclusivamente i luoghi nei quali si poteva svolgere attività lavorativa ed egli, nella sua qualità di R.S.P.P., da un lato, aveva comunque segnalato al datore di lavoro la necessità di tenere rigorosamente chiuso il capannone “incriminato” (nel quale – a suo dire – non si svolgeva alcuna attività lavorativa) e, dall’altro, non aveva certamente l’obbligo di sovrintendere le attività lavorative, controllandone lo svolgimento;

-- dalla documentazione prodotta nei processi era in ogni caso emerso che i capannoni, compreso quello “incriminato”, rimanevano chiusi proprio in ossequio alle indicazioni fornite nella sua qualità di R.S.P.P.

 

Sulla base di questi rilievi, il R.S.P.P. chiedeva alla Cassazione di applicare la regola giurisprudenziale secondo la quale a tale figura compete “soltanto” segnalare tempestivamente al datore di lavoro la situazione di pericolo e non, invece, adottare le misure antinfortunistiche e di controllo dello svolgimento delle attività lavorative, quali attività poste dalla legge in capo al datore di lavoro.

 

La Cassazione ha tuttavia confermato la condanna del R.S.P.P., prima smentendo la ricostruzione dei fatti che questi aveva offerto e poi mettendo in evidenza che la “regola giurisprudenziale” invocata dal ricorrente non era in discussione, poiché la condanna che allo stesso era stata inflitta trovava fondamento in altre considerazioni, correttamente effettuate dai giudici di merito.

 

In primis, la Cassazione ha evidenziato che, in realtà, i capannoni non erano (e non potevano) essere chiusi, vista la necessità di tenerli aperti per permettere le manovre a chi vi operava.

 

Da questo, la Corte, inferiva che il comportamento del R.S.P.P. si palesava del tutto negligente, poiché, addirittura non in grado di rilevare appunto quella necessità “operativa” che con troppa leggerezza aveva immaginato di obliterare, segnalando la necessità di tenerli chiusi.  

 

In aggiunta, la Cassazione ha confermato le affermazioni dei giudici di merito anche per quanto attiene la negligente sottovalutazione da parte del R.S.P.P. dei rischi collegati alla presenza di quelle “fosse” e la sua scelta (connotata da vera e propria imperizia) di indicare nel documento di valutazione dei rischi rimedi del tutto inidonei (catenelle e paletti) a scongiurare pericoli.

 

In altri termini, secondo la Cassazione, il R.S.P.P. era tenuto non solo a segnalare l’effettività del rischio ma anche a proporre concreti ed idonei sistemi di prevenzione e protezione per evitare gli eventi, come quello verificatosi, con la conseguenza – in punto di diritto – che l’assenza in capo al R.S.P.P. di poteri immediatamente operativi sulla struttura aziendale non esclude che l’eventuale inottemperanza ai suoi compiti (mancata o erronea individuazione e segnalazione dei fattori di rischio delle lavorazioni e mancata elaborazione delle procedure di sicurezza, nonchè di informazione e formazione dei lavoratori) possa integrare una omissione rilevante per radicare la responsabilità tutte le volte in cui un sinistro sia oggettivamente riconducibile ad una situazione pericolosa ignorata o male considerata dal responsabile del servizio.

 

Ciò perchè, in tale evenienza, l’omissione colposa del potere-dovere di segnalazione in capo al R.S.P.P. (omessa segnalazione di una situazione di rischio e/o suggerimento sbagliato), finirebbe con il costituire (con)causa dell’evento dannoso verificatosi, poiché avrebbe l’effetto di indurre il datore di lavoro ad omettere l’adozione di una doverosa misura prevenzionale.

 

Sulla base di queste puntualizzazioni, la Corte di Cassazione ha quindi confermato la condanna, poiché la Corte di Appello ha correttamente accertato che l’incidente mortale si verificò per evidenti carenza dell’apparato prevenzionale e per l’utilizzo di una metodica di lavoro pericolosa che non era stata per tempo evidenziata dal responsabile del servizio di prevenzione e protezione.

 

[a cura di Nicola Pignatelli, avvocato in Barletta - avvocatonicolapignatelli@gmail.com]



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