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"Formazione efficace e capacità didattica del formatore"
fonte www.puntosicuro.it / Formazione ed informazione
24/03/2015 -
4. Il Datore come formatore per i suoi lavoratori
5. L’istituzionalizzazione del sistema formativo per la sicurezza tra gradualità e coerenza
Pubblichiamo l’intervento
di Luciano Angelini, Docente di “Diritto della salute e sicurezza dei
lavoratori”, Università di Urbino Carlo Bo, al convegno OPRAM “Formazione
efficace” del 27 febbraio 2015, pubblicato sul sito Olympus.
Brevi considerazioni sulla rilevanza della qualificazione
dei formatori per una formazione in sicurezza davvero efficace
1.
Considerazioni introduttive
Vorrei innanzitutto ringraziare gli organizzatori di questo
convegno per aver deciso di riflettere su un tema che assume un’indiscutibile
centralità nell’ambito della complessa normativa posta a tutela della salute e
della sicurezza dei lavoratori. Il decreto
interministeriale 6 marzo 2013 sui criteri di qualificazione dei formatori,
entrato in vigore da quasi un anno, è soltanto l’ultimo anello di una lunga
catena di discipline nazionali e regionali, nonché di accordi e protocolli
vari, che oggi presidiano la formazione per la sicurezza nei luoghi di lavoro quale
obbligo penalmente sanzionato sia per il datore di lavoro sia per il
lavoratore.
Successivamente all’emanazione del d. lgs n. 81 del 2008, in
materia di qualificazione dei formatori sono stati siglati diversi accordi
istituzionali in ambito regionale (Friuli Venezia Giulia, Liguria, Lombardia,
Sicilia, Umbria); alcune Regioni hanno anche varato puntuali disposizioni
applicative degli artt. 34 e 37 del decreto (Lazio, Puglia, Liguria, Lombardia,
Toscana, Umbria). Vanno altresì ricordate due importanti circolari ministeriali
(5 giugno 2012, n. 13; 10 giugno 2013, n. 10356), la prima sul contributo
atteso dagli Enti Bilaterali in merito a programmazione ed erogazione della
formazione, la seconda, sulle modalità di adempimento degli obblighi formativi
di sicurezza posti in capo ai lavoratori sospesi dall’attività lavorativa
Un particolare interesse rivestono gli accordi Stato-Regione
per la formazione dei lavoratori e per lo svolgimento diretto da parte del
datore di lavoro dei compiti di prevenzione (ex artt. 37 e 34, d. lgs. n.
81/2008), siglati in sede di Conferenza Stato-Regioni il 21 dicembre 2011 (come
integrati dal successivo accordo del 25 luglio 2012), nei quali, da un lato, si
è deciso di fissare in tre anni l’esperienza minima di insegnamento o professionale
richiesta per poter svolgere l’attività di docenza e, dall’altro lato, si è
chiarito che l’esperienza professionale avrebbe potuto consistere anche nello
svolgimento dei compiti di RSPP, pure nel caso in cui questi fossero svolti
direttamente dal datore di lavoro.
Rispetto ai citati accordi Stato-Regioni, il decreto
interministeriale 6 marzo 2013 rappresenta un punto di approdo nuovo,
sicuramente più avanzato anche se non ancora definitivo, di sistematizzazione e
istituzionalizzazione dell’obbligo formativo in sicurezza, da raggiungere
attraverso la previsione di un livello “basico” di qualificazione dei
docenti/formatori, accertato in base alle loro conoscenze, esperienze e,
soprattutto, alle capacità didattiche possedute (Pascucci, 2014, 197-198;
Scarcella, 2014a, 456). Alla luce dei criteri elaborati dalla Commissione
consultiva permanente nella seduta del 18 aprile 2012 e riportati
nell’Allegato, sono proprio queste ultime, le capacità didattiche, l’aspetto
più innovativo, o meglio l’elemento su cui maggiormente ci si concentra per
innalzare il grado di efficacia dei percorsi formativi in atto (Scarcella,
2013, 1312,1313). E ciò al netto delle molte incertezze, ambiguità, lacune e
forse contraddizioni che il decreto e il suo allegato presentano, soprattutto
quando si vanno ad analizzare approfonditamente i criteri individuati per
provare il possesso dei requisiti di
qualificazione richiesti ai formatori (sui criteri di qualificazione, in
particolare sulla necessità che l’attività lavorativa o professionale sia
effettiva e svolta in modo non episodico, vedi anche Commissione interpelli, n.
21/2014).
2.
Formazione per la sicurezza e “organizzazione”
Sul livello di attenzione, sul potente “faro” che il decreto
81/2008 ha deciso di puntare sulla formazione non possono nutrirsi dubbi, e non
soltanto per le tantissime disposizioni del Titolo I che ne trattano. Ancor più
rilevante è in tal senso la nuova nozione di formazione, che la identifica come
un
“processo educativo attraverso il quale trasferire ai lavoratori e agli
altri soggetti del sistema di prevenzione e protezione aziendale conoscenze e
procedure utili all’acquisizione di competenze necessarie allo svolgimento in
sicurezza dei rispettivi compiti in azienda e alla identificazione, alla
riduzione e alla gestione dei rischi”. Si tratta di una nozione che della
formazione ci induce a considerare come il trasferimento di conoscenze e
procedure dev’essere innanzitutto utile allo svolgimento in sicurezza dei
compiti in azienda e, dunque, all’identificazione, riduzione e gestione dei
rischi.
Apprezzati in tale prospettiva, gli obiettivi di una
formazione efficace non possono non essere strettamente legati alla realtà aziendale
per la quale essa viene erogata. L’azione formativa non può limitarsi a
riprodurre un modello teorico-ideale, ma, al contrario, deve riferirsi
strettamente al contesto organizzativo nel quale e per il quale viene
effettuata, essere capace di legarsi ai processi organizzativi concreti e alle
problematiche che i lavoratori devono affrontare quotidianamente e trasformarsi
in competenze.
La mentalità e il
modus operandi di chi lavora,
soprattutto di coloro che svolgono funzioni apicali, costituisce un fattore
decisivo per una buona formazione di sicurezza: il rischio che altrimenti si
corre è quello di una formazione che si disperde e non incide, non arriva al
lavoratore che non viene realmente aiutato a comprendere la situazione in cui
opera e di conseguenza non modifica i comportamenti
rischiosi. In tal senso, essa non può ridursi a un’elencazione di norme,
rischi, misure di prevenzione, che pur costituiscono contenuti necessari e
irrinunciabili di quel processo.
Formare alla sicurezza, mettere il lavoratore in condizioni
di operare in sicurezza, chiede di suscitare innanzitutto consapevolezza e
piena cognizione di quali siano le proprie mansioni, ruolo e responsabilità. Un
esempio emblematico è quello del lavoratore non giovanissimo, professionalmente
esperto, inserito in un contesto organizzativo molto semplice e informale
tipico di una piccola o piccolissima azienda come tante ce ne sono nel comparto
artigiano, abituato a pensare e a risolvere i problemi da solo, senza
comunicare né il problema né la possibile soluzione, che riesce comunque a
mandare avanti il suo lavoro. Seppure il problema, di fatto, viene superato, o
meglio non impedisce o non interferisce sul processo produttivo, esso non è
stato socializzato, dunque non si è tradotto in esperienza condivisa. Inoltre,
la soluzione adottata per superarlo potrebbe generare essa stessa fonte di un
diverso e comunque insidioso rischio per lo stesso lavoratore o per i suoi
colleghi. Né sfugge la particolare condizione di pericolosità che potrebbe
determinarsi in quei contesti in cui tutti sostituiscono tutti, nel senso che
tutti sanno o almeno credono di poter fare tutto quello che serve al buon
funzionamento del processo produttivo.
Ho recentemente avuto occasione di leggere le motivazioni di
una sentenza
del 26 maggio 2014 n. 21242 della Corte di Cassazione penale che, nel
definire i contorni dell’obbligo di formazione in sicurezza incombente sul
datore di lavoro (ai sensi del d. lgs. n. 626/1994), ha chiarito come si debba
assicurare al lavoratore una formazione sufficiente e adeguata ‒ requisiti da
valutare con riferimento al posto di lavoro occupato e alle mansioni
concretamente svolte ‒ in modo tale da renderlo edotto sui rischi inerenti ai
lavori cui è comunque addetto, anche quelli derivanti dalla possibile
destinazione occasionale a compiti diversi da quelle abituali.
La sentenza mi offre l’occasione di tornare a esprimere il
forte convincimento che, soprattutto quando ci si trovi di fronte a micro
contesti imprenditoriali, l’adempimento soddisfacente degli obblighi formativi,
non diversamente da quanto accade per molti altri obblighi imposti dalla
normativa di sicurezza a cominciare da quello di valutazione dei rischi,
imponga un necessario percorso di elementare ma altrettanto significativa
formalizzazione dell’assetto organizzativo e produttivo nel quale l’attività
formativa deve essere svolta. Un tema che, nell’ambito delle attività di
ricerca portate avanti dall’Osservatorio Olympus, è emerso nitidamente quando
si è affrontato lo studio dei
modelli di gestione e organizzazione di cui all’art. 30 del d. lgs. n.
81/2008, analizzando, in particolare, le procedure semplificate previste per la
loro adozione e implementazione nelle piccole e medie imprese dalla Commissione
consultiva permanente.
In estrema sintesi, quello che intendo sostenere è che anche l’adempimento dello specifico obbligo formativo potrebbe indurre le imprese a migliorare la propria struttura organizzativa, rendere più trasparenti e meglio conosciute le dinamiche operative, risolvere le criticità, migliorare la qualificazione delle risorse umane, elevando il livello di qualità complessiva del sistema produttivo aziendale. Così facendo, ci si muove correttamente nel solco suggerito dagli studiosi di psicologia del lavoro e delle organizzazioni, quando esortano a considerare che i concetti stessi di sicurezza e di salute nei luoghi di lavoro non possono essere realmente apprezzati se non valutati nella complessa dinamica organizzativa aziendale.
In estrema sintesi, quello che intendo sostenere è che anche l’adempimento dello specifico obbligo formativo potrebbe indurre le imprese a migliorare la propria struttura organizzativa, rendere più trasparenti e meglio conosciute le dinamiche operative, risolvere le criticità, migliorare la qualificazione delle risorse umane, elevando il livello di qualità complessiva del sistema produttivo aziendale. Così facendo, ci si muove correttamente nel solco suggerito dagli studiosi di psicologia del lavoro e delle organizzazioni, quando esortano a considerare che i concetti stessi di sicurezza e di salute nei luoghi di lavoro non possono essere realmente apprezzati se non valutati nella complessa dinamica organizzativa aziendale.
3.
Formazione efficace e capacità didattica del formatore
Nella sentenza appena citata, la Corte di Cassazione ha
anche chiarito che l’obbligo formativo non potrà intendersi soddisfatto
considerando soltanto il personale bagaglio di conoscenze del lavoratore derivante
dall’esperienza operativa o dallo scambio di conoscenze socializzate con i
colleghi. Un tale bagaglio, di cui ovviamente non si mette in discussione
l’importanza, non potrà mai giuridicamente surrogare le attività d’informazione
e di formazione legislativamente previste, che andranno compiute nel rispetto
dei principi e delle regole istituzionalmente definite dalla normativa vigente.
Allargando la prospettiva di riflessione, la Corte ci esorta
a considerare come la formazione in sicurezza implichi necessariamente la
progettazione di un percorso che tenga conto dei diversi stili di apprendimento
dei partecipanti, usi con competenza e appropriatezza le migliori metodologie
formative oggi disponibili, promuova e valorizzi le capacità dei discenti, li
coinvolga attivamente favorendo un reale cambiamento di comportamento. Tutto
ciò si pone in perfetta coerenza con quelle che sono le finalità del decreto
interministeriale quando pretende che il formatore possieda una minimale
qualificazione, avuto riguardo a un adeguato livello di conoscenza, esperienza
e capacità didattica.
Rispetto alle discipline precedenti che si sono a vario
titolo interessate di formazione in sicurezza, è sulle capacità didattiche che
mi sembra ora prestarsi un’attenzione particolare, quasi a voler porre
l’accento sul fatto che sarebbe da imputare all’insufficiente cura prestata sia
alla progettazione dei percorsi formativi sia alle modalità didattiche
normalmente utilizzate la responsabilità di una formazione scarsamente efficace.
La Commissione consultiva permanente, infatti, nel dettare i criteri di
qualificazione definiti nell’allegato, fatta eccezione per il primo criterio
per il quale è considerata sufficiente una precedente esperienza come docente
esterno ‒ svolta per almeno novanta ore nell’area tematica oggetto di docenza
(area normativa/giuridica/organizzativa; area rischi tecnici/igienico-sanitaria;
area relazioni/comunicazione) ‒ per gli altri cinque (criteri) indica anche, in
alternativa con altre esperienze comunque di “didattica sul campo”, la
frequenza di un percorso formativo in didattica della durata minima di 24 ore,
con esame finale, oppure l’abilitazione all’insegnamento o il conseguimento di
un diploma triennale in Scienza della Comunicazione o di un Master in
Comunicazione.
4. Il Datore come formatore per i suoi lavoratori
Il Decreto interministeriale consente ai datori di lavoro di
svolgere attività formativa nei soli riguardi dei propri lavoratori, anche se
non possono vantare il possesso del prerequisito del diploma di maturità. Tale
eccezione li accomuna ai formatori che all’atto dell’entrata in vigore non
posseggano anch’essi il prerequisito: essi potranno continuare legittimamente a
fare formazione dimostrando di rientrare in almeno uno dei criteri definiti
nell’Allegato.
Ai datori di lavoro che svolgono attività di docenza per i
propri dipendenti, il decreto interministeriale riconosce un’altra
agevolazione, quella di poter continuare a farlo per ulteriori 24 mesi
dall’entrata in vigore del decreto (18 marzo 2016), nel rispetto delle sole
condizioni previste dall’Accordo Stato -regioni del 2011, qualora siano
legittimati, dopo aver seguito lo specifico percorso formativo, a svolgere
l’attività di RSPP ai sensi dell’art. 34 del d. lgs. n. 81/2008. Trascorsi i
ricordati 24 mesi, anch’essi dovranno però dimostrare di essere in possesso di almeno
uno dei requisiti
indicati nell’Allegato.
La soluzione accolta dal decreto, sicuramente discutibile,
mi sembra tuttavia non irragionevole: proponendo una graduale applicazione
della nuova normativa, essa evita di creare eccessive difficoltà soprattutto ai
piccoli datori di lavoro, dando loro tutto il tempo necessario a organizzarsi
per adempiere correttamente l’obbligo formativo, in particolare consentendogli
di individuare la migliore soluzione tra quelle offerte dalle istituzioni
formative, dalle organizzazioni rappresentative, dai sistemi di
bilateralità/pariteticità e anche dai propri consulenti (sull’importanza della
collaborazione con gli organismi paritetici in materia di formazione, v. la
Commissione interpelli,
n. 14/2014).
Considero particolarmente apprezzabile, una volta assicurata
l’iniziale gradualità applicativa, che anche nelle piccole imprese la
formazione in sicurezza dovrà essere necessariamente erogata da un formatore
che possegga, tra l’altro, adeguate capacità didattiche, capacità che
l’esperienza professionale e le competenze/conoscenze di un datore di lavoro
che sia stato specificamente formato a svolgere direttamente le funzioni di
RSPP non sono di per sé idonee ad attestare.
5. L’istituzionalizzazione del sistema formativo per la sicurezza tra gradualità e coerenza
Molte critiche sono state comprensibilmente rivolte al fatto
che i requisiti del decreto siano previsti soltanto per i formatori chiamati a
erogare i corsi per lavoratori, dirigenti, preposti nonché per i datori di
lavoro che possono svolgere direttamente i compiti di responsabile dei servizi
di prevenzione e protezione. I formatori impegnati a progettare attività
formative di ben più specifico e impegnativo rilievo, come avviene ad esempio
per gli RSPP e gli ASPP, i lavori in quota, l’uso di attrezzature
particolari, l’antincendio, la formazione dei rappresentanti dei lavoratori
per la sicurezza, nonché per tutte le attività di addestramento, non
assoggettati alle disposizioni del decreto, continuano a osservare una
normativa molto meno rigorosa.
Se è indubbio che il limitato raggio di azione del decreto
interministeriale costituisca un’evidente criticità per la coerenza del sistema
formativo in sicurezza inteso nel suo complesso, c’è anche in questo caso
un’esigenza di gradualità da considerare, che ha suggerito di non stravolgere
le modalità di realizzazione dei percorsi formativi da tempo in atto in materia
di salute e sicurezza dei lavoratori, soprattutto di quelli a più elevato
contenuto informativo/formativo. Infatti, mentre per la formazione di base le
capacità didattiche del formatore acquistano un rilievo sicuramente decisivo,
quando a essere in gioco è un percorso formativo per ruoli specifici o per
attività molto pericolose, che impone di trasmettere contenuti ad alta
tecnicalità, credo siano soprattutto le conoscenze/competenze e le esperienze
professionali del formatore a garantire l’erogazione di una formazione
davvero efficace.
Tutto ciò considerato, rispetto ai percorsi formativi a più
elevato contenuto tecnico, la scelta del decreto interministeriale di non
estendere
sic et simpliciter i criteri di qualificazione definiti per i
“formatori di base” appare opportuna e condivisibile. E’ peraltro evidente che,
se va accertata la qualificazione del formatore di base, tanto più dovrà
esserlo quella del formatore incaricato di svolgere una formazione “superiore”;
ed anche che, sulla scelta dei requisiti che dovranno possedere i formatori in
sicurezza oggi esclusi dall’ambito di applicazione del decreto, i criteri che
la Commissione consultiva permanente ha già definito non potranno non
esercitare una decisiva influenza, auspicabilmente tale da determinare, a
regime, la realizzazione di un sistema di regole armonico e coerente.
Fonte: Olympus.
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