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"Prevenzione degli incidenti: meglio le regole o il ragionamento autonomo?"

fonte www.puntosicuro.it / Rischio incendio

12/04/2013 - Alcuni giorni orsono ho scritto un articolo su questa rivista on line ( Percepire i rischi e controllarli autonomamente: si può insegnare?), ottenendo una certa effervescenza di risposte. Poi Attilio Pagano ne ha scritto un altro ( Gli errori più comuni nella valutazione dei rischi), ragionando sempre sul tema della prevenzione degli errori di valutazione, specialmente quelli che possono essere commessi dai diretti interessati dai rischi in oggetto che ovviamente non sono “specialisti”.
 
Vorrei quindi tornare sul tema per approfondire la tematica della  base fondamentale dei comportamenti sicuri, che vede due scuole distinte e talora apertamente contrapposte, che a loro volta nascono da una visione della psicologia diversa: comportamentismo e cognitivismo.
 
Tenete conto che io non sono uno psicologo, quindi a me interessa raggiungere un risultato positivo rispetto ad una necessità concreta. Le due visioni psicologiche, invece, vedono l’essere umano nella sua interezza, e quindi giustamente le discussioni in merito sono ben che legittime e importanti. Lo sono meno se parliamo di sicurezza e salute sul lavoro, dove il problema e l’eventuale esito positivo sono immediatamente riconoscibili e misurabili. Arriverò a sostenere che entrambe le visioni e gli approcci sono corretti, ma lo sono per situazioni diverse fra loro. E aggiungo di avere una predilezione per la visione cognitiva, ma solo perché mette al centro la persona, la sua intelligenza e la sua determinazione (cosa che mi è particolarmente congeniale).
 
Gli errori di comportamento
Sempre da tecnico, e sempre parlando di sicurezza e salute sul lavoro, posso pensare di distinguere gli  errori che portano a situazioni pericolose o a veri danni alle persone, in due categorie (molto macro):
errori che si manifestano in situazioni “normali”, ovvero in situazioni che si sono già presentate e/o si presenteranno ripetutamente al lavoratore, in una forma ben definita e “ripetitiva”;
errori che si manifestano in risposta a situazioni “eccezionali”, forse anche prevedibili in astratto, ma mai considerate o fatte considerare a colui che commette l’errore.

Nel  primo caso se sono addestrato e allenato ad affrontare la situazione secondo uno schema comportamentale ben definito, se adotto quel comportamento con disciplina, attenzione e determinazione, allora posso immaginare di non incorrere in rischi per la salute e la sicurezza, o di avere un tale controllo che tali rischi non si tramutano in danni. Quindi si tratta di riconoscere una situazione nota e di rispettare le regole stabilite.
 
Nel  secondo caso invece devo necessariamente passare da un processo che parte dal riconoscimento del problema potenziale per arrivare alla elaborazione ed attuazione delle (eventuali) contromisure di controllo. Quindi le parole chiave sono conoscere, valutare e decidere, ovvero termini che ci rimandano ad un comportamento fortemente attivo da parte del soggetto interessato.
 
Vorrei fare notare che NON ho citato i termini ben noti: situazioni anomale o di emergenza. Questo perché possono ricadere anche nella prima categoria, se previste in sede di valutazione dei rischi, e controbattute tramite apposite procedure su cui gli esposti sono addestrati e allenati. C’è ovviamente un passaggio di riconoscimento della situazione non semplice e assolutamente fondamentale, ma poi se la situazione è fra quelle catalogate il comportamento potrà seguire regole predefinite e ben conosciute.
 
La prevenzione degli errori tramite le regole
Molti vogliono farci credere che esista una ed una unica risposta. Chi scrive non è d’accordo, le situazioni e gli stimoli cui sono sottoposti i lavoratori sono molteplici, e devono essere affrontati con una adeguata specificità. Questo però comporta anche uno sforzo formativo non indifferente per coinvolgere pienamente gli stessi lavoratori su questo approccio complesso.
 
Dividiamo quindi i due approcci base che cerchiamo tutti di applicare, a diverso livello di intensità. Non si tratta di scuole di pensiero ma di misure che nella sostanza sono elementari. Il primo gruppo di misure è quello che potremmo definire: ISTRUZIONI DI SICUREZZA, ovviamente intendendo con l’etichetta “sicurezza” anche la salute.
 
Una  istruzione di sicurezza nasce dalla valutazione di una situazione pericolosa (entro il DVR) piuttosto che come conseguenza di un mancato infortunio o di altri tipi di rilievi. Dal rilievo del problema di sicurezza si passa allo studio di eventuali misure di controllo del rischio, sempre che non siano possibili ben più radicali misure tecniche che potrebbero addirittura non eliminare il pericolo ma ridurre il rischio praticamente a zero. Se le misure possibili sono misure di controllo, di cui è parte integrante il corretto comportamento umano, sarà opportuno definire esplicitamente quali siano i corretti modi di operare per evitare di subire i danni di cui si sta ragionando. Quindi nascerà una istruzione che dice cosa fare, come farlo, quando e con quali precauzioni.
 
Poniamo di dovere imbragare un tubo metallico lungo sei metri e pesante cinque tonnellate mediante due cinghie telate a loro volta appese al gancio di un carroponte.
Una parte della istruzione dirà (dopo che le cinghie sono state predisposte e agganciate al carroponte):
 
 
OPERAZIONE
PERICOLI E RISCHI
PRECAUZIONI E DPI
sollevare il tubo di pochi centimetri
perdita del carico
 
schiacciamento degli arti inferiori
 
 
tenersi a distanza di almeno 80 cm
 
 
 
 
verificare che il tubo sia ben bilanciato (deve restare orizzontale) e che le brache non scivolino sul tubo
perdita del carico (anche in fasi successive se si movimenta un carico non correttamente bilanciato)
 
schiacciamento degli arti inferiori
 
 
 
tenersi a distanza di almeno 80 cm
 
qualora il tubo fosse sbilanciato appoggiarlo immediatamente e rifare l’imbragatura
 
 
 
 
Dove ovviamente la piccola verifica prescritta serve per controllare che non ci siano problemi di stabilità del carico quando ancora il medesimo è basso e quindi il rischio può considerarsi controllato (se anche perdessi il carico la potenzialità di danno è limitata e diventa quasi zero se mi tengo a distanza)...
 
Questo approccio, sappiamo, funziona bene per gestire situazioni oggettive di rischio, relativamente semplici e, più che altro, ripetitive. La nostra istruzione, nei limiti del possibile, coprirà più situazioni simili (tubi di lunghezza sino a dodici metri, per esempio, o tutti gli elementi cilindrici a diametro costante …).
 
Non vogliamo discutere ora sulla specifica correttezza della istruzione, vorremmo invece parlare della efficacia delle istruzioni.
Esistono  molteplici criticità che andiamo ad elencare:
- la prima deriva dal fatto che non è pensabile che TUTTI i rischi possibili in una azienda industriale vengano valutati. Il DVR arriverà a “vedere” quelli più macroscopici e quelli decisamente ripetitivi, ma esisteranno sempre situazioni particolari che il DVR non ha preso in considerazione. Questo anche se il DVR è realizzato con estrema cura ed attenzione. Quindi in diversi casi (quanti in percentuale?) viene a mancare il presupposto essenziale per predisporre una istruzione di sicurezza. Prevengo subito le obiezioni: è chiaro che col tempo si migliora e si identificano sempre più rischi, ma la completezza assoluta è un risultato a mio avviso non raggiungibile;
- la seconda questione è più subdola: la definizione delle misure di controllo non è sempre così semplice perché le stesse misure possono essere di ostacolo eccessivo al lavoro oppure essere esse stesse fonte di rischio. Quindi le istruzioni possono essere per loro natura imperfette o non sempre applicabili alla realtà concreta (là dove la realtà presenta delle varianti che in alcuni casi costringono ad operare diversamente da come stabilito). Ora qualcuno potrebbe dire: perché le istruzioni operative spesso son fatte male, spesso con l’intento di togliere responsabilità ai vertici in caso di infortunio. Vero in alcuni casi, ma nel concreto il problema esiste anche quando tutti operano al meglio e con tempo a sufficienza per raccogliere e organizzare le informazioni;
- la terza è la difficoltà di recepimento: se dovessi regolamentare tutto in modo capillare, tutto quello che in una azienda industriale ha risvolti anche di sicurezza e salute sul lavoro, allora verrei a creare una tale mole di istruzioni, tanto ampia da risultare illeggibile e, di fatto, inapplicabile. Quindi esiste un problema di capienza, più di tante istruzioni, per quanto fatte bene, non posso darne.
 
A questi che sono limiti indiscutibili di un approccio di prevenzione degli errori basato sulla “imposizione” di comportamenti sicuri, dove spero che il termine imposizione possa essere stemperato da una fattiva collaborazione con le persone esposte ai rischi all’atto della definizione dei comportamenti sicuri, se ne aggiunge un altro molto subdolo: se ho l’impressione che tutti i rischi residui siano stati valutati e messi sotto controllo tramite regole comportamentali, allora potrei ritenere di non aver motivo di prestare attenzione autonoma agli aspetti di sicurezza, in quanto basta che io segua le regole per essere sicuro. Nessun lavoratore sosterrebbe una tesi del genere, ma a livello sub conscio come funziona?
 
La prevenzione degli errori tramite il ragionamento autonomo
Sorrido quando io stesso uso il termine “gli specialisti della sicurezza”, intendendo con questo le persone che dedicano a questo tema la loro intera attività lavorativa. Come se esistesse una specializzazione intesa come “studio”, quando invece la differenza è fatta, in larga misura, dalla esperienza. Non bisogna essere vecchi per essere esperti, però bisogna prestare tanta attenzione a quello che ci circonda per costruirci le nostre categorie di giudizio. La disattenzione, la distrazione dalla realtà concreta rappresentano i peggiori nemici di chi si occupa di sicurezza.
 
Perché la premessa? Per dire che non ci vuole un prerequisito particolare per potere ragionare correttamente in materia di sicurezza e salute sul lavoro. Quindi con il giusto stimolo tutti possono farlo. Ovviamente devono volerlo fare!
 
Allora non capisco mai bene perché si debba parlare ai lavoratori degli esiti della valutazione dei rischi, invece di insegnare loro a fare la valutazione dei rischi.
 
Alcuni giorni fa è apparso su queste pagine un bell’ articolo di Attilio Pagano che evidenziava come tutti noi, nella vita, siamo portati a valutare i rischi (di qualunque natura) a cui siamo esposti. Invece, aggiungo io, sul lavoro, forti del fatto che la nostra sicurezza e la nostra salute devono essere tutelati dal datore di lavoro, talvolta dimentichiamo di applicare questa nostra capacità.
 
Quindi il primo passo dovrebbe e può essere di “recupero”, processo che si può realizzare tramite una riconsiderazione dei ruoli e un semplice esame della realtà oggettiva. I punti cardine di questo ragionamento, che deve coinvolgere tutta la popolazione aziendale, potrebbero essere quelli che seguono:
- chi può avere più interesse per la salute e la sicurezza di una persona se non la persona stessa? Quindi il singolo lavoratore DEVE essere il primo attore di tutto quanto concerne prevenzione e protezione dai rischi che corre. Questo lo dice anche l’articolo 20 del D.Lgs. 81/2008, mettendo questo concetto per primo; solo dopo si parla di rispetto delle leggi e delle regole aziendali;
- per fare quanto detto è necessario che ognuno applichi la propria intelligenza al problema. Se vale quanto detto sopra sull’essere “specialisti” di sicurezza, allora potremmo concludere che per essere efficaci è necessario allenare la capacità di focalizzare parte della nostra attenzione e della nostra capacità di ragionamento sugli aspetti di sicurezza e salute che ci possono riguardare direttamente;
- per stimolare l’attivazione dei lavoratori su questo tema è però necessaria una azione decisa da parte della azienda, volta principalmente al recupero della centralità dell’individuo nella gestione della propria sicurezza e salute, e nella riattivazione dell’approccio naturale alla valutazione dei rischi.
 
A questo proposito vorrei proporre alcuni concetti con cui arrivare alla comprensione da parte delle persone.
 
Il primo concetto da evidenziare è, ovviamente, la incompletezza inevitabile del DVR e quindi il fatto che non tutte le situazioni che ci si presentano davanti nel nostro lavoro sono state preliminarmente valutate da qualcuno. E quando una situazione non valutata ci si presenta davanti, noi non siamo accompagnati dal RSPP che immediatamente la valuta, noi siamo soli, siamo talvolta gli unici che vedono e lì, in quel momento, noi da soli dobbiamo decidere cosa fare. Se non riconosciamo il rischio e se non vogliamo fare la fatica di valutarlo, potremmo procedere senza adottare contromisure sino a procurarci un infortunio o una malattia professionale.
 
E non scordiamoci neanche il concetto di rischio residuo! Il rischio residuo dichiarato accettabile in sede di DVR, non smette di essere un rischio ben concreto per le persone. Un esempio di cui abbiamo recentemente discusso con dei lavoratori: in un ufficio esiste il rischio elettrico. La risposta è affermativa, poi risulterà un rischio residuo accettabile per tutte le misure adottate per evitare contatti diretti o indiretti alle persone che lavorano in quell’ufficio.
 
Il secondo punto, che discende dalla presa di coscienza che anche negli ambienti più “tranquillizzanti” sussistono rischi per la sicurezza e la salute delle persone, è: quale caratteristica intrinseca del rischio interessa di più a noi come individui?
E qui emerge, a mio avviso, un passaggio molto importante che vorrei quasi mettere in contrapposizione con una parte del ragionamento fatto nel già citato articolo di Attilio Pagano. Interrogando i lavoratori si ricava che l’elemento che più salta agli occhi fra quelli che costituiscono un rischio, è la gravità del possibile danno. In effetti ha una sua logica: in un mondo (lavorativo e non) dove la probabilità viene ritenuto un parametro solo teoricamente conoscibile, ma di cui nessuno si fida, la risposta alla domanda “nel peggiore dei casi cosa mi potrebbe accadere?” diventa lo strumento migliore per prendere una decisione. E lo confermano anche certe paure e scelte che nulla hanno a che vedere col lavoro: per esempio la paura del nucleare, che in termini probabilistici sarebbe, invece, un fenomeno ben conosciuto, tale da dare un rischio “accettabile”.
 
La questione è che alcuni fenomeni a bassa probabilità (è un campo ben definito nell’ambito degli studi affidabilistici per la sicurezza dei grandi impianti industriali), vengono trattati come fenomeni a probabilità ignota, e quindi passano davanti in termini di rischio, ad altre casistiche meno gravi ma assai più probabili.
 
Nulla di grave, in pratica, sono errori legati a forti paure insite nella nostra cultura a cui rispondiamo con alti livelli di ansia. Io credo che si possa ammettere questa falla del ragionamento implicito piuttosto che cercare di vincerla con ragionamenti che rischiano di essere fuorvianti nella determinazione di una strategia delle scelte.
Sembra contorto? Non lo è, provo a ricapitolare con lo stesso flusso logico che uso quando cerco di convincere i lavoratori ad “usare” la valutazione dei rischi:
- provate a chiedere: “Che sensazione provate se vi tagliate lievemente con il bordo di un foglio di carta che state prendendo dalla stampante? È una esperienza comune a molti. Come reagite? È un problema?”; la risposta è “No, non è un problema!”, oppure è “Sono cose che capitano …”. Se invece per tagliare a misura lo stesso foglio usate una taglierina manuale e vi amputate la prima falange dell’indice della mano sinistra, come reagite? La risposta è molto diversa, piena di ansia e preoccupazione. Allora evidentemente noi abbiamo maggiore propensione a mettere in atto contromisure quando capiamo che un determinato pericolo/rischio può causarci danno di una certa entità, superiore a una soglia predefinita che abbiamo in testa (e che per ognuno è diversa). Se è così, essendo noi “azienda” particolarmente interessati a ridurre i danni gravi o gravissimi, possiamo ragionevolmente contare che un atteggiamento del genere vada nella direzione giusta generando un “aiuto” alla salute e alla sicurezza da parte dei lavoratori;
- avrete notato che sopra ho sottolineato la parola “capito”, che considero un sinonimo di visto, riconosciuto, ovvero del fatto che ci siamo resi conto coscientemente e pienamente di una situazione in essere vicino a noi (di un pericolo/rischio). Se non vediamo è ovvio che non facciamo nulla, ovvero non abbiamo motivo di adottare contromisure. Quindi la abitudine a “guardarsi intorno” è determinante e deve essere stimolata e anche premiata (premiare chi segnala situazioni pericolose concrete).
 
Se davvero riuscissimo nel nostro intento la sicurezza sui luoghi di lavoro vedrebbe un nuovo drammatico (in senso positivo) miglioramento. Ricordiamoci che l’INAIL sostiene che circa due terzi degli infortuni hanno fra le cause gli errori umani; quindi se rimuovessimo gli errori umani ridurremmo davvero tanto gli infortuni.
 
Se la soluzione appare, a mio modesto avviso, piuttosto elementare, metterla in atto non è semplice, e ancor meno immediato. Infatti quello che si richiede ai lavoratori è un profondo cambiamento di mentalità in direzione contraria rispetto a quella che è la consueta concezione del lavoro.
Il concetto proposto si potrebbe tradurre in: passare dalla concezione della sicurezza come diritto alla concezione della sicurezza come dovere personale. Senza polemiche, davvero, qui c’è un concetto che va contro tutta la storia sindacale nazionale.
 
Però questo non deve essere un problema, la strada da percorrere è inevitabile. Il vero problema sono gli strumenti e i tempi.
 
Un caro amico mi richiamava alla realtà quando ero molto più giovane, dicendomi: se quello che vuoi ottenere è il cambiamento della mentalità diffusa in una azienda, allora pensa ad un periodo necessario di alcuni anni, diciamo cinque anni per un cambiamento vero e profondo. Devo riconoscere che aveva ragione, ci siamo impegnati insieme in un progetto parecchio ambizioso, proprio su sicurezza e salute, e il cambiamento ha cominciato ad apparire dopo un paio di anni ed è diventato sostanziale (e rispondente agli obiettivi) dopo circa cinque anni.
 
Ok, i tempi, ma gli strumenti? A mio avviso, per quel poco che posso capire, sono due: spiegare la logica di fondo (anche con esempi) ripetutamente nel corso del tempo e fare esempi in campo, come si dice on the job. Insomma: tanta pazienza e dedizione! Ma anche tanta convinzione di essere davvero nel giusto! Convinzione che dovrà essere trasmessa ai lavoratori.
 
Ieri un amico mi faceva osservare che chiunque, indipendentemente dal grado di istruzione e dalla esperienza specifica, è in grado, se si applica, di sviluppare i ragionamenti necessari per tutelare la propria sicurezza e la propria salute sul luogo di lavoro. È stata una piacevole condivisione di quello che stavo appunto scrivendo.
 
L’approccio sinergico e la centralità della persona
Spero non sembri una brutta parola. Quello che intendo rimarcare è la convinzione che non esista un sistema unico e completo, che risolva il problema dei comportamenti umani in relazione alla sicurezza e alla salute sul lavoro. Peraltro vale la pena osservare che l’individuo è l’elemento singolarmente più complesso che possiamo trovare in un ambiente lavorativo (altro che impianti), e che poi una “comunità” di persone sono un qualcosa di ulteriormente complesso. Sarebbe strano che a situazioni complesse si potesse rispondere con soluzioni semplici.
Quindi dobbiamo mettere in campo più risposte, ognuna delle quali preferibilmente semplice da attuare, e gestirle in modo sinergico coinvolgendo al massimo grado tutti i lavoratori non solo sotto il profilo applicativo, ma anche nella comprensione della strategia generale di prevenzione adottata dalla azienda.
 
Che questo sia poi un approccio che rivaluta la centralità della persona anche in questi processi legati alla salute e alla sicurezza sul lavoro è aspetto che a chi scrive piace molto, ma queste sono davvero opinioni e visioni etiche del tutto personali.

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